Questo libro nasce per non dimenticare la vicenda drammatica di Ciro Esposito, per continuare a riflettere e ad agire, per dare ai giovani il diritto di affermare la propria identità, tifare per la propria squadra del cuore e, dopo la partita, poter tornare a casa felici o tristi.
Per Ciro, purtroppo, non è stato così.
Intorno alla vicenda di Ciro vi è stata una partecipazione piena della città, sono stati scritti testi profondi e sinceri.
Attraverso Ciro e la sua agonia, la città intera ha ritrovato il senso profondo di essere una comunità, un senso di appartenenza che si è riflettuto negli articoli che qui riproponiamo per strapparli alla cronaca e consegnarli alla riflessione di tutti, per non dimenticare cosa è successo, perché è potuto succedere, affinché fatti del genere non si ripetano.
Ai funerali di Ciro il suo quartiere, Scampia, ha manifestato una dignità, una compostezza e una fierezza che hanno sbriciolato il muro omertoso della notizia preconfezionata mostrando la realtà composita di un quartiere che, affianco a Gomorra, ha mille esempi di impegno civico, culturale e politico, una realtà che aspetta solo che lo Stato faccia quanto gli compete per ristabilire standard di vita civili e opportunità di riscatto.
La triste vicenda che ha portato alla morte di Ciro ha generato una catarsi, un “quartieretutto”, Scampia, una “cittàintera”, Napoli, in un attimo si sono scrollati di dosso tanti luoghi comuni e un vittimismo piagnone, interrogandosi su se stessi e la propria identità perduta.
L’agonia di Ciro è stata una epifania, un evento nel quale il quartiere e la città hanno trovato la propria identità, hanno scoperto il senso profondo di appartenere ad una comunità di uomini e donne che nel momento del dolore hanno trovato la gioia di sentirsi dignitosamente un popolo. Nell’agonia di Ciro la città ha saputo riconoscersi e raccontarsi con parole importanti, profonde e sincere.
Partendo dalla cronaca dei fatti, il racconto è riuscito ad andare al di là di essa, c’è stata una partecipazione profonda dei tanti che hanno scritto, un coinvolgimento emotivo sincero che ha rivelato una narrazione nuova che è andata oltre gli stereotipi della vulgata comune.
Questi testi, apparsi su quotidiani cittadini, hanno svelato, con punte alte di pura letteratura, questa possibilità di una città se non nuova, diversa. I quotidiani sono uno strumento effimero di per sé, durano lo spazio di un giorno.
Questi racconti, questa narrazione nuova, andavano strappati dalla caducità dell’oblio del giorno che passa e proposti ad una rilettura e ad una riflessione più meditata, come tante parti di una unica ordatura unitaria, un meta-racconto: la storia di un quartiere e di una città, storia che pone problemi e chiede risposte.
Riflettere ancora deve servire a non disperdere quanto di positivo è emerso, è da qui che bisogna ripartire per scrivere una nuova pagina di civiltà, per non dimenticare la domanda di rappresentanza, la ritrovata identità di una città ferita ma ancora viva, che ha urlato sottovoce la sua rabbia con una civile indignazione.
Questo libro nasce per non dimenticare il dramma di Ciro. Io ho un sogno, che le sue ceneri possano essere il nutrimento dal quale Scampia, Napoli, possano rinascere come l’Araba fenice e, come l’Araba fenice, affermare: «dopo la morte torno ad alzarmi».
Ogni storia ha un inizio e una fine. La storia di Ciro inizia il 3 maggio con le prime frammentarie notizie che riferivano di un tentativo di rapina avvenuto a latere dell’affluenza all’Olimpico dei tifosi napoletani per la partita di Coppa Italia tra il Napoli e la Fiorentina; prosegue con l’istituzione di un premio del Coni, fortemente voluto da Giovanni Malagò, alla memoria di Ciro e termina il 25 giugno con la cerimonia della consegna della Medaglia d’Oro della Città di Napoli conferita dal Sindaco Luigi de Magistris ad Antonella Leardi, mamma di Ciro Esposito e il Concerto a Scampia del Coro del Teatro di San Carlo diretto dal Maestro Salvatore Caputo.
In questo libro, tra i tanti articoli di cronaca pubblicati sulla vicenda di Ciro, sono proposti quelli che, per la valenza delle loro considerazioni, mantengono intatta tutta la loro pregnanza, al di là dell’evento delittuoso da cui hanno avuto origine.
La famiglia di Ciro ha vinto la sua prima battaglia anche grazie alla sensibilità e alla disponibilità a fare bene il proprio lavoro di cronisti di tanti bravi operatori dell’informazione che hanno visto, scritto e documentato il dramma di Ciro con commozione, partecipazione e senso civico e, per questo, gli saremo sempre grati.
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Ciro Esposito. Ragazzo di Scampia.
Per affermare questa semplice verità abbiamo impiegato cinquantacinque giorni, il tempo trascorso dal suo ferimento alla sua morte.
L’intreccio tra la lunga agonia di Ciro e la battaglia per fare emergere la verità sui tragici avvenimenti di Tor di Quinto ha trasformato la vicenda delittuosa, che ha colpito la mia famiglia, in un evento che va al di là del nostro dramma privato e investe questioni più generali, attinenti alla sfera pubblica, su cui è utile non dimenticare e tentare qualche riflessione più ampia per evitare che simili vicende possano ripetersi ancora.
Nella storia che ha violentemente stroncato la giovane vita di Ciro sono emersi una serie di elementi inquietanti su cui è utile fermarsi.
In primo luogo la presunzione di colpevolezza: se vieni da Scampia, segui il Napoli in trasferta, sei certamente colpevole di qualcosa.
Se Ciro fosse stato un qualunque Ciro Esposito di Scampia la presunzione di colpevolezza si sarebbe trasformata in certezza mediatica, fortunatamente aveva alle spalle una famiglia in grado di controbattere adeguatamente all’opera di disinformazione in atto. Dopo il tentativo di occultare la verità dei fatti siamo riusciti a realizzare una narrazione diversa perché Ciro appartiene a una famiglia che ha una lunga tradizione di impegno civile e ha gli strumenti culturali per rovesciare il mantra perverso imperante ed è riuscita a far emergere con chiarezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Ciro era un bravo ragazzo di Scampia.
Il secondo corto circuito mediatico che si è realizzato in questa vicenda è il rovesciamento del senso comune.
La notizia del giorno non è un nazifascita che spara, per uccidere, a tre ragazzi – ricordo che Gennaro Foret-ti è stato colpito al braccio, a poca distanza dal cuore – dopo un assalto ad un autobus di donne e ragazzi. No! Affatto.
In piena restaurazione della fisiognomica lombrosiana la notizia è “Gerry ’a Carogna” e la trattativa per far giocare la partita ed evitare così ulteriori, sanguinosi incidenti.
Anche intellettuali della sinistra frù frù come Gad Lerner continuano, oltre ogni decenza, a sostenere che il problema è Genny e che i funerali di Ciro, portati in tutto il mondo ad esempio di compostezza civile di un quartiere e di una città lo hanno inquietato.
Ricordo, a onor di cronaca, che Genny, dopo aver avuto rassicurazioni da Hamsik che Ciro non era morto, dopo l’inizio della partita ha abbandonato lo stadio per raggiungere Ciro in ospedale, ma questa non è una notizia degna di essere riportata con la stessa enfasi della trattativa.
Nella drammatica vicenda che l’ha investita, la famiglia di Ciro è diventata una casa di cristallo, va bene, questo ha aiutato a fare chiarezza sui tentativi di rendere torbida la ricostruzione degli eventi delittuosi di Tor di Quinto. La stampa nazionale, però, non ha seguito con altrettanta solerzia la vita e i trascorsi di De Santis, personaggio noto della destra fascista romana, accompagnatore abituale di Alemanno, nessuno ha approfondito i suoi rapporti con la Baglivo che, ha avuto un ruolo non secondario nell’inquinamento delle prove sulla scena del crimine.
Nessuno ha indagato la storia di quel sito del Coni occupato abusivamente e le speculazioni edilizie fatte sull’area del Ciak Village.
La “Gazzetta dello Sport” ha fatto uno scoop: individuati i partecipanti al raid. Perché non sono ancora stati assicurati alla giustizia? Perché De Santis è gravemente malato, rischia l’amputazione di una gamba e si fa fotografare in piedi in apparente stato di salute e nessuno trova singolare questa situazione?
Per rendere giustizia a Ciro ci vorrà ancora molto tempo ma non allenteremo mai l’attenzione e la vigilanza su tutto l’iter processuale.
Per rendere giustizia a Scampia sarà necessario mettere in campo tutta la nostra intelligenza, bisogna superare la logica del particulare, a questo quartiere serve che tutte le realtà interessanti che si muovono sul terreno sportivo, ambientale, sociale e politico facciano squadra, nel rispetto della reciproca autonomia, ognuno deve fare la propria parte per fare, insieme, rete.
Il rischio è che l’immagine di compostezza che il quartiere è riuscito a dare di sé sarà presto dimenticato, viceversa bisogna rilanciare una grande comunicazione mediatica per abbattere i luoghi comuni che lo stritolano, noi napoletani, tutti insieme, dobbiamo chiedere ad alta voce legalità, vivibilità, socialità.
Lo Stato, la Regione e il Comune devono intervenire, ora, con un grande piano di contrasto al degrado e alla disoccupazione.
In questo modo, come città, riusciremo a risarcire Scampia di tutto il male che ha subito e onoreremo adeguatamente la memoria di Ciro, quando non ci sarà più bisogno di specificare che qualcuno è un bravo ragazzo anche se proveniente da Scampia.
La storia drammatica di Ciro non è finita con il suo assassinio, essa avrà il suo compimento solo quando giustizia sarà fatta e i colpevoli pagheranno e sconteranno la giusta condanna per il suo assassinio.
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Sabato 3 maggio dopo pranzo eravamo a casa, già sintonizzati su Sky Calcio in attesa della partita Fioren-tina-Napoli sperando di gustarci la sperata e meritata festa della Coppa Italia.
Ad un certo punto un cronista fuori all’Olimpico parla di incidenti avvenuti vicino allo stadio, una delle prime agenzie riporta:
Poco prima dell’inizio della partita, valevole per la finale di Coppa Italia TIM Cup 2014, tre persone sono state soccorse dalla polizia dopo essere rimaste ferite nei pressi dello Stadio Olimpico. Due sono state trasportate all’ospedale Villa San Pietro, si tratta di un ragazzo di 30 anni, ferito al torace, in codice rosso ed un uomo di 43 anni, colpito alla mano destra, entrambi attinti da colpi d’arma da fuoco. Una terza persona, di 32 anni, è stata trasportata d’urgenza all’ospedale Santo Spirito con ferite da colpi d’arma da fuoco ad un braccio e ad una mano. È stata recuperata una pistola presumibilmente usata per i ferimenti. Gli investigatori stanno provvedendo ad ascoltare alcuni testimoni. Al momento il triplice evento non sembra essere collegato a scontri tra tifosi, ma avrebbe cause occasionali. (Servizio di Domenico Lista - Agenzia Meridiana Notizie)
Turbati per queste notizie restiamo collegati e seguiamo con preoccupazione gli eventi, amareggiati per questi atti di violenza che rischiano di trasformare una augurata festa in una tragedia.
Squilla il telefonino, rispondo: «Zio hanno ferito Ciro, non preoccuparti lo abbiamo spogliato, è ferito ad una mano». Mi assale l’angoscia ma poi mi rassicuro e penso che tutto sommato siamo stati fortunati perché uno dei feriti, invece, è grave e in cuor mio sono contento che non sia Ciro. Intanto, la televisione continua a trasmettere notizie frammentarie e diffonde la prima ricostruzione dei fatti, un giovane camorrista ha tentato una rapina andata male ed è gravemente ferito.
Chiamo mio fratello Gianni per rassicurarmi e lui mi invita a stare tranquillo, è tutto sotto controllo, sta già andando a Roma per prendere Ciro, perché, conoscendolo, è preoccupato che dopo le cure del pronto soccorso, possa, anche ferito, comunque, andare all’Olimpico a vedere la partita del Napoli.
Mia moglie propone di andare al garage a verificare se hanno ulteriori notizie di Ciro. Pasquale, il fratello, è preoccupato ma, tutto sommato, siamo abbastanza tranquilli, chiedo notizie di Antonella e mi rispondono che non sa ancora che Ciro è stato ferito ad una mano. Facciamo zapping tra tutte le reti che trasmettono notizie degli incidenti e, ad un certo punto, esce fuori il nome di Ciro, colti dall’ansia richiamiamo a Roma e veniamo rassicurati. «Io ero con lui, lo abbiamo spogliato, ti ripeto zio era ferito ad una mano, sta al S. Pietro ma non mi fanno entrare.» «Mi stai dicendo la verità? Qua circolano strane voci.» «Ti giuro, è tutto sotto controllo». Mi rassicuro e penso che se il ferito grave fosse stato mio nipote, qualche autorità da Roma ci avrebbe avvisato. Richiamo Roma: «Guarda che qua dicono che il ferito grave è Ciro» «Zio ti ho detto che lo abbiamo spogliato, stai tranquillo, però mi sembra che sia stato trasferito». Adesso inizia a farsi spazio un drammatico dubbio, forse il giovane tifoso grave non era un ragazzo sfortunato rispetto a mio nipote che se l’era cavata con una ferita alla mano, forse era proprio mio nipote, perché nessuno ci avvisa? Provo a chiamare gli ospedali e la Questura, cerco di spiegare che stiamo a Napoli e siamo preoccupati, vogliamo solo conoscere l’identità del ferito grave, sapere se dobbiamo partire per Roma. Non è possibile, c’è la legge sulla privacy. A questo punto propongo di comunicare ad Antonella che Ciro è stato ferito in modo non grave e, febbrilmente, continuiamo a cercare di avere notizie.
Una televisione privata dà i nomi, nuova chiamata a Roma: «Sei uno stronzo, perché non ci hai detto che il ferito grave era Ciro?» «Zio, ti giuro, lo abbiamo spogliato, era ferito ad una mano.» Forse ha ragione, penso, spesso i giornalisti sbagliano, mentre siamo in un forte stato di ansia arriva una telefonata di Giacomo, ci dice che hanno avuto la notizia che Ciro non stava più al San Pietro, lo avevano trasferito al Gemelli. Razionalizzo tutto e capisco che c’è qualcosa che non va.
Sollecito Pasquale a partire subito per Roma insieme a Simona.
Nel frattempo il garage si riempie di persone, arriva la mia famiglia preoccupata, decidiamo che non c’è più tempo da perdere, organizziamo le auto e partiamo per Roma con il cuore pieno di tristezza e il cervello arroventato dai dubbi.
Finalmente al Gemelli, si è già riunita una folla di persone, napoletani e laziali, notizie frammentarie, l’ospedale è presidiato dai carabinieri e da una pattuglia della Digos di Roma e di Napoli. Due funzionari, umani, fanno da spola tra i medici e noi e ci aggiornano sulle condizioni di Ciro: drammatiche. Nel frattempo scopriamo che i carabinieri presidiano l’ospedale perché si è diffusa la notizia che l’aggressore di mio nipote è ricoverato anche lui al Gemelli. Scandalizzati chiediamo notizie, nessuno è in grado di risponderci ma, dopo poco, i carabinieri vanno via, De Santis è stato trasferito.
I laziali portano cibo e bevande.
Quando sono partito da Napoli, fortunatamente, ho portato il mio iPad per cercare di avere notizie sugli accadimenti. La notte tra il 3 e il 4 maggio, al Gemelli, mi collego e inizio a leggere le notizie inquietanti e false che sono iniziate a circolare fin dal pomeriggio del 3 maggio.
I telegiornali e le agenzie, senza informarsi e verificare le fonti, diffondevano la notizia che Ciro Esposito era un camorrista ferito in un tentativo di rapina, mi indigno, e scrivo a caldo: «Quando si è disinformati dai media si pontifica sul nulla, quando sei dentro la notizia, sei la notizia, ti monta la rabbia, un giovane lavoratore, mio nipote, viene sparato senza motivo da un delinquente, ultras della Roma e ascolti la “merda” dei telegiornali e scopri che invece di recarsi pacificamente allo stadio compiva una rapina, vergogna, spero che a questi esperti di disinformazione capiti quello che è successo a me e sentano i loro colleghi dire le bugie che ho sentito io».
La situazione clinica di Ciro dà segni di ripresa, non è ancora fuori pericolo ma le sue condizioni si sono stabilizzate e sembrano volgere al meglio.
Una compagna di Roma mi contatta su Facebook, gli ha parlato di me Vittorio Passeggio, e mi manda le prime notizie dettagliate su De Santis, la sua appartenenza alla destra eversiva capitolina, i suoi legami con Alemanno, la storia del Ciak 2000, l’origine del soprannome.
Capisco che sarà dura affermare la verità ma anche che la mia storia, i miei rapporti, le mie competenze possono essere utili ad affermare la verità.
Percepisco anche che intorno a mio nipote si sta creando un vuoto, a partire dal partito al quale è iscritto, il PD, nessuno ha voglia di porsi domande ci sono già pronte le risposte preconfezionate.
Uno squarcio di verità si apre, “La Gazzetta dello Sport” pubblica un articolo nel quale c’è una narrazione diversa degli incidenti di Tor di Quinto e di chi è realmente Ciro Esposito, di Scampia.
Pino, mio fratello, è il segretario del PD di Scampia, intorno a lui un silenzio assordante.
Nell’indifferenza dei più, scatta, però, la solidarietà degli antichi compagni, gli amici del “Laboratorio Insurgenzia” mi contattano, mi sono vicini, mi passano informazioni preziose, insieme capiamo che sta partendo un assalto mediatico a un quartiere e ad una città intera e decidiamo di reagire. Io ci metto la faccia e loro mi supportano, indiciamo una conferenza stampa per spezzare la coltre di conformismo che si sta alzando. Il tempo è breve terremo una conferenza stampa.
Domani, 7 maggio 2014, alle ore 12,00 alla Galleria Principe (di fronte al Museo Nazionale) si terrà una conferenza stampa indetta dai familiari di Ciro Esposito, ragazzo che lotta tra la vita e la morte, dopo l’agguato subito nei pressi dell’Olimpico di Roma per i fatti di sabato scorso. Una vicenda che lascia interdetti per numerosi fattori. In primis la gestione di un ordine pubblico inesistente da parte delle autorità romane. Ancora per il vergognoso attacco alla città di Napoli, che vede tre ragazzi ricoverati in ospedale con lesioni gravissime, ma in stato di fermo mentre gli aggressori, che vengono da ambienti politici della destra estrema collegata in città con Alemanno, sembrano coperti da una patina omertosa. Per queste ragioni, e per tante altre, siamo contro la creazione del mostro da sbattere sui giornali, come capitato al capo ultra Genny de Tommaso, ed invece puntiamo il dito contro le facili strumentalizzazioni che in questo momento subisce la città di Napoli. Ciro e gli altri feriti devono essere difesi dalla città come simbolo di restituzione alla comunità partenopea di verità e giustizia.
La conferenza stampa è un successo ci sono tutti i maggiori organi di informazione, in quella sede lanciamo questo appello:
Verità per Ciro, Gennaro e Alfonso.
Lo scorso sabato ci ha restituito l’idea di un paese alla rovescia. Un paese in cui il dibattito mediatico insegue lo scandalo, il fotogramma ad effetto, invece di provare a ricostruire la verità di quello che è successo. Lo scorso sabato tre ragazzi di Napoli, Ciro, Alfonso e Gennaro, hanno subito un agguato armato. Dallo scorso sabato Ciro lotta per riprendersi, lotta aggrappato a quella vita che qualcuno voleva togliergli, e Gennaro, come finalmente comincia ad emergere dai giornali lotta per non perdere l’uso del braccio. Queste storie sembravano non interessare a nessuno. Era troppo più succulento speculare sulla curva, sul mondo degli ultras. Era troppo più facile costruire l’ennesimo teorema razzista sui ragazzi di Scampia o di Mugnano (che quindi è un camorrista), sul tifoso figlio di un delinquente (che quindi è un camorrista anche lui). Era troppo più comodo sbattere i mostri in prima pagina. E, nel frattempo, disporre anche la custodia di Ciro. Ciro che entrava e usciva dalla sala operatoria senza che i familiari potessero stargli vicino. E intanto le versioni dei fatti si accumulavano, così come si accumulavano le domande: chi ha sparato? In quanti lo hanno fatto? Come è possibile che un commando armato potesse raggiungere pressoché indisturbato i tifosi del Napoli? Oltre la coltre del dibattito mainstream, rispetto alle domande reali, c’è solo un silenzio odioso e insopportabile. Questo silenzio va sfidato. La revoca degli arresti per i tre ragazzi aggrediti è un primo passo, ma non basta. Non basta rispetto al modo grottesco in cui da giorni viene gestita la vicenda, dai media, dalle istituzioni, dalle forze dell’ordine. Non basta a spiegare i provvedimenti che si sono succeduti, le perquisizioni, le strette securitarie paventate dal Ministero degli Interni. Vogliamo la verità. La verità su quella sera maledetta, la verità sugli attentatori, la verità sulle coperture di cui queste persone hanno potuto beneficiare, la verità sul ruolo della destra eversiva in questa vicenda. Sono vuoti che vanno riempiti, ma riempiti sul serio, tramite un lavoro d’inchiesta e non con il vocio assordante dei media, bravissimi a costruire acrobatiche ipotesi che parlano tutte la stessa lingua: quella del razzismo, quella che descrive Napoli, il Sud, come teatro di barbarie e di inciviltà, in cui se si muore è sempre perché ce la si è cercata. «Ciro, Gennaro, Alfonso siamo noi» vuol dire questo: vuol dire sapere chi sono i nostri, vuol dire mettere a tacere i tentativi di criminalizzazione e di distrazione di massa, vuol dire stringerci attorno al dolore di chi sta pagando due volte, una per la tragedia che si è consumata sabato e l’altra per il modo in cui si sta provando a rispondere, vuol dire ribadire che questa storia ci riguarda, ci riguarda perché poteva essere uno qualunque di noi, perché in quel letto d’ospedale, sospeso tra la vita e la morte, c’è un nostro fratello, uno di quelli che come noi vive in quartiere di periferia, ci lavora, quel territorio così utile per incassare grazie al brand di Scampia, della camorra, della napoletanità. E, se è vero questo, è vero che non staremo a guardare, ma proveremo a chiedere verità e giustizia con tutte le nostre forze. Per questo saremo a piazza Dante, sabato 10 maggio alle ore 16.00. Per chiedere risposte, per chiedere che questa storia non venga dimenticata né messa a tacere. Per ristabilire un ordine delle priorità, che veda al primo posto il tentativo di far luce su un agguato, piuttosto che l’opinionismo insopportabile che in questi giorni ha saturato il dibattito pubblico. Per questo invitiamo tutte e tutti a riempire quel presidio, tutti quelli che – come noi – vogliono sapere che cosa è successo, vogliono la verità, vogliono testimoniare la solidarietà ai familiari di chi è stato aggredito e rischia la vita, vogliono prendere parola nella nostra città per raccontare una storia diversa da quella razzista che riempie le pagine dei giornali. Invitiamo chi ama Napoli ed è disposto a difenderla a partecipare al presidio: «Ciro, Gennaro e Alfonso siamo noi».
La manifestazione di piazza Dante riesce, la città e il quartiere iniziano a reagire, finalmente la gente si pone domande, ha dubbi, cerca risposte.
Una grande aiuto alla nostra battaglia viene dai giornalisti sportivi che iniziano a indagare, a scrivere, porto i giornalisti televisivi al garage, a vedere il “covo” e le armi che usava “il camorrista”: la pompa per lavare le auto.
Inizia un’altra narrazione, quella che abbiamo desiderato raccontare in queste pagine, che vogliono rispettare e far vivere: la memoria di Ciro.
***
Giovedì pomeriggio siamo partiti da Roma con la salma di Ciro e siamo tornati a Napoli, dove eravamo attesi dalla mattina.
All’uscita del casello ci attendeva il Sindaco di Napoli e, insieme, abbiamo accompagnato Ciro alla camera ardente allestita nell’auditorium del suo quartiere, Scampia.
Dopo aver presenziato alla cerimonia di apertura della camera ardente predisposta dal Comune e dalla Municipalità per consentire alla città di salutare Ciro, questo suo figlio vittima di una violenza feroce e gratuita, sono andato a casa a vestirmi.
Nella mia famiglia sono stato educato che ai morti bisogna portare rispetto, questo rispetto, a maggior ragione, era dovuto a Ciro, che è un pezzo del mio cuore andato via per sempre.
A casa, stanco della stressante attesa della consegna della salma e del viaggio mi sono lavato e vestito. Ho indossato il mio vestito scuro, la camicia bianca, calzato un paio di scarpe nere e, poiché ai funerali si va sempre in giacca e cravatta, ho scelto una cravatta di Marinella che si intonasse alla cerimonia funebre, mi è sembrato il minimo che potessi fare per onorare Ciro come si deve e come meritava, mi sono messo in macchina e sono tornato alla camera ardente.
Racconto tutto questo perché sono convinto che non ci siano due Napoli in contrapposizione, quella di Ciro e quella di Marinella. Non sono una Napoli alta e una Napoli bassa, sono, dignitosamente, entrambe la stessa Napoli, quella che, come si dice da noi, fatica.
A Napoli non si usa dire vado a lavorare, per reminiscenze greche si dice vado a faticare.
E però la festa a Palazzo Reale e la camera ardente a Scampia hanno mostrato che, in realtà, ci sono due Napoli, una plebea e un’altra che riesce ad esprimere cultura con la sua dignità.
C’è la Napoli che de Magistris ha saputo degnamente rappresentare, una città che rispetta il lutto cittadino, lo fa proprio e poi, c’è un’altra Napoli che, pur essendo istituzione, rappresentanza, non riesce a volare alta, non riesce proprio ad identificarsi con l’anima vera di questa città, non riesce ad essere classe dirigente.
Quelle istituzioni dovevano rispettare, contemporaneamente, la giusta celebrazione di una eccellenza na-poletana, e Dio sa quanto c’è bisogno di eccellenze per salvare questa città, ma dovevano rispettare anche il lutto di una città intera, riconoscendo a Marinella quello che è di Marinella e a Ciro quello che è di Ciro, dolore e orgoglio.
Quei rappresentanti delle istituzioni che hanno scelto di presenziare alla festa di Palazzo Reale hanno sbagliato. Potevano anche non scegliere di partecipare al dolore della città, potevano scegliere di restare a casa propria o di andare dove gli pareva, però, per quello che dovrebbero rappresentare, avrebbero dovuto astenersi dal partecipare all’orgoglio di Marinella che, giustamente, era e doveva essere una festa.
Peccato, hanno perso una buona occasione per entrare in sintonia con l’intera popolazione nella quale forse non si riconoscono e alla quale, forse, non sentono di appartenere.
Peccato, perché se avessero avuto occhi per vedere e orecchie per ascoltare avrebbero visto e sentito, come ha affermato Nino D’Angelo, la dignità e l’orgoglio di una città intera, dal Vomero a Scampia, che per un giorno si è trovata unita per piangere un suo figlio, Ciro Esposito, che l’ha saputa rappresentare con grande semplicità e dignità.
***
Dopo la morte di Ciro ho cercato di comprendere come evitare il ripetersi di eventi delittuosi che con il tifo non dovrebbero avere niente in comune.
Per questo, come ricercatore sociale mi sono trovato catapultato nel mondo del tifo calcistico e in quello degli ultras in particolare. Ho cercato di capire, studiare, trovare una via di uscita, applicando il metodo che avevo sempre utilizzato per lo studio delle politiche industriali, e dello sviluppo locale, avevo voglia di conoscere, comprendere ed ho iniziato un viaggio nella galassia ultras.
Ho incontrato tanti ultras, del Napoli ma non solo. Mi sono interessato al fenomeno, volevo capire. Sono andato a Brescia, quando ho detto che dobbiamo lottare contro la violenza la prima cosa che mi sono sentito dire, dagli ultras del Brescia e dell’Atalanta è stata: «Con questa testa non vai da nessuna parte, sei un buonista».
Mi bollarono così: buonista. Allora ho cambiato prospettiva, ho cercato di capire le dinamiche del tifo per poter mettere in campo una strategia per sconfiggere la violenza collegata al tifo.
In questi mesi ho compreso tante cose. In questa società, che amorale e senza valori positivi, in cui una persona che studia è considerato un povero cristo, uno sfigato, una società in cui prevalgono sempre più l’effimero e il vuoto, il tifo è diventato una delle poche forme di identità sociale rimaste, anzi la più importante.
Identità territoriali che si sviluppano attraverso rituali che dobbiamo provare a capire se vogliamo risolvere il problema. La repressione, da sola, non serve, è utile per fronteggiare l’immediatezza dell’evento ma nel medio-lungo termine è inefficace, perché non modifica i processi che originano la violenza.
Il nodo dell’identità territoriale non va rimosso, bensì va valorizzato e incanalato in un processo comunitario non regressivo ma inclusivo. Non possiamo far finta di non capire quale sia il problema. E non possiamo ignorare che l’Italia, oltre a difficoltà comuni con l’estero, ha l’aggravante del razzismo.
Se noi vogliamo provare a debellare il fenomeno violenza negli stadi, dobbiamo condurre una battaglia per aprire gli stadi, renderli fruibili, prendere atto che la violenza è insita nel meccanismo simbolico che gli ultras si sono scelti, e bisogna ricollocarla in un sistema allegorico che neutralizzi le spinte violente usando gli stadi, ritrasformarli di nuovo in arena simbolica.
È necessario però incanalare nei giusti binari un passaggio chiave per loro: la morte simbolica dell’avversario. Che prima, magari, poteva avvenire anche grazie a una coreografia spettacolare che invece oggi è stata vietata e porta la simbologia “fuori” dello stadio con rituali che scivolano sempre più spesso nello scontro fisico con l’avversario.
Il nodo è riuscire a offrire uno sbocco all’identità del tifoso che altrimenti, in assenza di valori positivi, non può che indirizzarsi verso il razzismo. Il razzismo negli stadi in Italia andrebbe combattuto seriamente, con multe molto salate, seguendo il modello Thatcher: colpire le società, a volte succubi, quasi sempre conniventi nella tasca. Questi soldi, però, non dovrebbero poi andare alla Federcalcio ma ad una Fondazione che si occupi dell’educazione allo sport per le generazioni future. Altrimenti è tempo perso.
Il tifo può essere incanalato in un sistema comunitario positivo, all’estero succede: i tifosi di una squadra scozzese hanno impedito ai romanisti di esporre uno striscione anti-napoletano; furono gli scozzesi a srotolare uno striscione con la scritta “tifosi sì, razzisti no”.
Ricordiamo quel che è successo a Bilbao in occasione dell’incontro Athletic Bilbao-Napoli, quando i baschi accolsero i tifosi napoletani senza astio ma con la certezza di vincere, «perché loro non erano solo una squadra di calcio; no, loro erano la Nazionale basca, avevano un’identità ben definita di cui andare orgogliosi». E dopo la partita andarono a bere con i napoletani che assistettero alla loro festa. C’è modo e modo, quindi, per giungere alla morte simbolica dell’avversario.
Io sono critico nei confronti del “mondo ultras” perché spesso questa realtà ha un atteggiamento autoreferenziale, sbagliato, che lo porta a rifiutare il confronto con la società tutta sulle loro posizioni. Basti pensare a come è stata gestita mediaticamente la loro richiesta di revisione del processo Speziali, con una pessima maglietta che lancia un messaggio fuorviante ede equivoco.
Per sconfiggere questo tipo di “mentalità” ultras occorre avviare un lavoro capillare nelle scuole per far comprendere ai ragazzi, futuri tifosi, che orgoglio e identità nazionale non sono l’uno contro l’altro, e che l’identità territoriale con la razza non c’entra nulla.
L’obiettivo che dobbiamo perseguire è che attraverso l’apertura degli stadi la morte simbolica dell’avversario diventi una festa, come avviene a Bilbao, e non un evento delittuoso come invece è avvenuto a Roma.