L’excursus letterario dentro la parabola dell’industrialismo

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Caratteri dell’industrialismo italiano

Com’è noto, l’Italia è un Paese la cui economia è caratterizzata dall’assenza strutturale di materie prime: di conseguenza, l’industria italiana è un’industria di trasformazione, importa materie prime e produce manufatti per il mercato interno e per l’esportazione.
Nel corso degli anni, usando la leva della svalutazione della lira e operando attraverso il sostegno pubblico al settore privato, promuovendo, attraverso le Partecipazioni Statali, una vera e propria industria di Stato, l’Italia è riuscita a dotarsi di un sistema produttivo competitivo, caratterizzato però da alcune distorsioni.

Com’è noto, l’Italia è un Paese la cui economia è caratterizzata dall’assenza strutturale di materie prime: di conseguenza, l’industria italiana è un’industria di trasformazione, importa materie prime e produce manufatti per il mercato interno e per l’esportazione. Nel corso degli anni, usando la leva della svalutazione della lira e operando attraverso il sostegno pubblico al settore privato, promuovendo, attraverso le Partecipazioni Statali, una vera e propria industria di Stato, l’Italia è riuscita a dotarsi di un sistema produttivo competitivo, caratterizzato però da alcune distorsioni. La prima caratteristica è quella per cui l’apparato industriale si sviluppa prevalentemente al Nord, come conseguenza storica del fatto che con l’Unità d’Italia va in crisi un modello di sviluppo industriale, sebbene fragile, che aveva avuto luogo nel Sud borbonico. La caratteristica di questo sviluppo industriale centrato al Nord, che ha molto a che fare con la successiva evoluzione del rapporto tra intellettuali ed industria, consiste nell’affermazione del mercato di massa, cioè nel passaggio dalla divisione rigida tra produttori e consumatori ad un sistema nel quale il produttore stesso è consumatore e sterminate masse contadine migrano dal Mezzogiorno al “triangolo industriale”.

Il modello che si afferma, a partire dagli anni del boom economico, è quello dei consumi di massa, mutuato dall’insegnamento di Henry Ford, il quale sosteneva che l’obiettivo dell’impresa è quello di produrre automobili per tutti: i clienti «possono scegliere l’auto che vogliono, basta che sia una Ford T, di qualsiasi colore, basta che sia nera»1. In Italia,  tuttavia, il boom economico ha al suo interno una fragilità: il sistema produttivo si sviluppa al Nord, utilizzando, però, manodopera prevalentemente meridionale, con tutte le conseguenze sociali del caso, in termini di sradicamento dalle campagne, disperazione sociale, incremento delle forme dell’alienazione. In definitiva, gli anni del boom vedono anche l’emergere di grandi sistemi di aggregati industriali e conurbazioni metropolitane2  che,  negli anni della deindustrializzazione, porranno problemi di riorganizzazione e rifunzionalizzazione di vaste aree territoriali.
La seconda caratteristica risiede nelle forme intrinseche di un’evoluzione produttiva territorialmente distorta, il “dualismo territoriale” dello sviluppo, che si cerca di superare intervenendo, in modo esogeno, con la politica delle “grandi opere” e dei lavori pubblici da realizzare al Sud, soprattutto mediante l’azione dell’Iri e della Cassa per il Mezzogiorno. Questa politica non riesce però a costruire un humus territoriale favorevole allo sviluppo di un ceto imprenditoriale endogeno moderno3.
 I cicli di riorganizzazione industriale difficilmente si sottraggono a quella che si può considerare una “legge ferrea” dell’innovazione: la produzione non può rimanere ferma al proprio livello storico di innovazione perché, nel corso dello sviluppo delle filiere produttive, i vettori territoriali precedentemente meno competitivi avranno intanto acquisito il know how necessario a scalzare le posizioni storicamente dominanti. L’unica chance dei fattori produttivi è quella del “salto di qualità” da compiere sia in termini di innovazione di processo e di prodotto sia in termini di razionalizzazione ed organizzazione della produzione e del lavoro.
La produzione industriale nel suo complesso si può infatti rappresentare sotto la forma di una “spirale tecnologica”: il punto in cui si permane nella spirale non è mantenibile, lungo il corso della spirale ci si può solo muovere, salire o scendere rispetto al proprio livello, ma non conservare, staticamente, la posizione acquisita. L’Italia, invece, nel corso degli anni Settanta, con il suo sistema di produzione industriale, è rimasta ferma, innanzitutto perché il sistema-Paese ha scontato la storica assenza di un sistema finanziario degno del nome; detto diversamente, l’Italia, al confronto con gli altri Paesi a sviluppo capitalistico, è l’unico che possiede un sistema finanziario strutturalmente fragile. Si può parlare, dunque, nel caso italiano, di un «capitalismo senza capitali» che ha comportato l’impossibilità di finanziare processi virtuosi di ristrutturazione e innovazione del e nel sistema produttivo.
Un altro fenomeno che ha aggravato la crisi del sistema-Paese è stato la subalternità dei governi agli interessi dei singoli capitalisti, anche quando questi interessi si ponevano in contraddizione con gli interessi generali del capitalismo stesso. Un esempio su tutti, quello della Fiat: si è consentito all’azienda monopolistica italiana per eccellenza di acquisire tutti i suoi concorrenti, evitandole così la concorrenza di altri player sul mercato interno, con la conseguenza che la Fiat, operando in un mercato protetto, non ha dato corso alle innovazioni produttive che si andavano sperimentando negli altri Paesi, fino a mettere in discussione la sua stessa permanenza in Italia.
Secondo un’altra “legge ferrea” dell’economia, le imprese «muoiono quando crescono», perché l’aumento dei volumi di crescita da l’impressione di essere espandibili e l’impresa ha a sua volta l’impressione di poter continuare imperturbabilmente a «crescere senza innovare». In Italia, si è creata esattamente una situazione di questo tipo, con monopoli fragili, apparentemente forti sul mercato protetto ma deboli all’estero rispetto alla concorrenza. Con lo scoppio della crisi degli anni Settanta, a partire dallo shock petrolifero del 1973, l’economia meridionale si è trovata a doversi confrontare con un nuovo problema: la messa in crisi dei “giganti di argilla”, insediati al Sud, imponeva una politica industriale nazionale e politiche di indirizzo, selezione e riconversione mirate.
La situazione è oggi, di conseguenza, problematica, perché, sebbene in Italia vi sia stata una particolare ubriacatura post-industriale, vere società post-industriali possono dirsi solo quelle che hanno mantenuto nelle proprie economie delle solide basi industriali. Attraverso gli anni Ottanta, ad esempio, il mondo ha assistito all’assalto giapponese agli Stati Uniti, ma, già nella seconda metà degli anni Novanta, gli Stati Uniti non solo hanno recuperato le proprie posizioni ma sono anche tornati ad essere un Paese mercantile in piena regola, in parallelo con la crisi economica del Giappone.
Il rapporto può essere considerato analogo, a parti invertite, a quanto succede oggi nell’inter-scambio tra gli Stati Uniti e la Cina. La maggior parte dei prodotti che risulta entrata negli Stati Uniti dalla Cina era precedentemente uscita in forma di semi-lavorati dagli Stati Uniti stessi, nel senso che le componenti di basso valore lavorativo ma ad alto valore tecnologico erano state realizzate negli Stati Uniti, mentre tutte quelle di valore lavorativo superiore e con scarso contenuto tecnologico erano svolte in Cina. Adesso anche le lavorazioni ad alto contenuto tecnologico sono effettuate in Cina. Si assiste, insomma, ad un ritorno in grande stile dell’industria manifatturiera con tutte le sue problematiche e peculiarità.
Il problema, nel contesto nazionale, risiede nel fatto che in Italia non solo mancano “governi che governino” e politiche industriali degne di questo nome, ma si è perfino costruito un modello sociale in cui è stato complessivamente “rimosso” il lavoro. In altre parole, il sistema italiano si immagina – e si racconta – come un sistema di consumatori e non come un sistema di produttori, con tutte le conseguenze del caso, dal punto di vista della tenuta economica e sotto il profilo delle rappresentazioni culturali nell’immaginario collettivo.

La parabola civile e culturale di Adriano Olivetti

Questa vicenda storico-economica precipita sulla produzione delle forme culturali, e quindi anche sulla letteratura e sulla sua dimensione specifica rappresentata dalla «letteratura industriale», e si riverbera sulla mediazione degli intellettuali, tra la fabbrica e la società, nella definizione di quelle forme e di quei paradigmi. In questo crinale, storico e culturale, non è possibile prescindere dalla figura di Adriano Olivetti (Ivrea, 1901 - Aigle, 1960). Innanzitutto, perché rappresenta una dimostrazione del fatto che l’imprinting culturale determina il “destino” delle persone: Adriano Olivetti nasce figlio di un imprenditore ebreo socialista e di una donna valdese. E poi perché la complessità e l’ambivalenza della sua figura, nel contesto storico, nazionale ed internazionale da lui attraversato, costituiscono un cimento intellettuale “in sé”.
Molti si misurano con l’imprenditore Olivetti, mentre, per evitare ogni schematismo, bisognerebbe misurarsi in primo luogo con l’intellettuale-uomo d’azione Olivetti4, soprattutto  a partire dalla critica del lavoro che lui prima concepisce e quindi realizza5. I  grandi successi dell’imprenditore hanno messo in ombra l’opera dell’intellettuale. Non è, inoltre, un dettaglio che Adriano Olivetti nasca socialista, influenzato dall’esperienza svizzera del Centro Estero, e che questo aspetto pesi in maniera decisiva in tutta la sua parabola, sin dal momento in cui va maturando una visione “socialista umanitaria”, che lo porta a rompere con il leader socialista Pietro Nenni proprio sul tema dell’autonomia del socialismo italiano6.
In questa rottura politica si avverte tuttavia l’eco di una scelta intellettuale. Adriano Olivetti, prima ancora di rompere con una linea politica che non condivideva, sceglie di sperimentare le sue teorie industriali attraverso un atto di rottura e ricostruzione. Ci troviamo cioè di fronte ad una persona, dotata di profonda consapevolezza sia in termini economici sia in termini culturali, che cerca di realizzare il suo “socialismo umanitario”, facendolo, per di più, con un’operazione geniale, quella di “de-fordizzare” Taylor. Il taylorismo è fondamentalmente un tentativo di oggettivare l’organizzazione del lavoro; il fordismo rappresenta quindi solo un’implementazione possibile del taylorismo. È un po’ come nel discorso che confonde la scienza con la tecnica: per gli stessi motivi per i quali la sinistra sindacale, politica ed intellettuale ha combattuto l’alienazione del lavoro, la stessa sinistra dovrebbe by- passare Ford e tornare a Taylor, abbandonando la tecnica per fare ritorno alla scienza.
Tornando a Adriano Olivetti, l’intellettuale-uomo d’azione, nella sua scelta di sperimentare il “socialismo umanitario”7 da  imprenditore illuminato, introduce alcuni principi decisivi: il primo, che l’impresa debba funzionare bene; il secondo, che l’impresa debba concepirsi come un organismo razionale; il terzo, che l’impresa in quanto razionale debba vivere nella misura della sussistenza di due condizioni, il capitale dell’imprenditore ed il lavoro dell’operaio. Questi due fattori, capitale e lavoro, “devono” convivere8. Qui  Olivetti introduce, come ricorda Paolo Volponi, la moderna economia, la moderna sociologia e la moderna psicologia (in termini di medicina del lavoro, sociologia del lavoro e psicologia del lavoro).
Altro elemento fondamentale per capire l’intellettuale Olivetti è quello per cui – essendo l’impresa razionale e dovendo questa funzionare bene – è necessario che produca utili. In altri termini, la dimostrazione del fatto che l’impresa, in quanto complesso organico, abbia funzionato bene è che nel suo insieme, costituito di imprenditore ed operai, produca utili. Per produrne, tuttavia, l’impresa razionale ha bisogno di un fattore immateriale: l’intelligenza. Adriano Olivetti intuisce che l’intelligenza dell’Olivetti – azienda non è quella dell’Olivetti – padrone, bensì è quella dei lavoratori dell’Olivetti9.  L’aspetto più importante della vicenda olivettiana è l’intuizione di organizzare l’azienda non esclusivamente intorno alle esigenze dell’imprenditore, bensì prevalentemente facendo circolare al proprio interno “intelligenze libere” a tutti i livelli.
Come più testimonianze hanno raccontato e scritto, Olivetti spesso assumeva personale completamente al di fuori della logica di produzione: assunzioni, per così dire, soprannumerarie, nella misura in cui non solo servissero alle esigenze tecniche della produzione ma funzionassero, in particolare, da portatori di intelligenza al suo organismo produttivo. L’intelligenza del marxiano “lavoro vivo” è in Olivetti così importante da essere messa in circolo anche quando non è immediatamente spendibile, perché la sua teoria, questa perfino ebraica e luterana, è che l’intelligenza viva, immessa in questo organismo a sua volta vivificante, avrebbe presto o tardi trovato la propria scintilla innescando meccanismi di innovazione e di crescita.
L’aspetto più sorprendente consiste proprio in questa apertura morale, sociale e intellettuale che ha portato a risultati incoraggianti: soprattutto, in termini di utili stratosferici. L’utile in Olivetti, per dirla con Marx, non si ferma sulla soglia della produzione ma accede a quella della riproduzione: esso riguarda, ad esempio, il bello, la cultura, l’arte in fabbrica, anche attraverso la progettazione degli spazi umani di lavoro e di vita10.
Ci troviamo di fronte ad una ripresa del socialismo, non in quanto movimento utopico, ma come tentativo di organizzare la società in modo razionale, tenendo conto del fatto che l’innervatura della società è costituita dal lavoro e che il lavoro è il centro dell’iniziativa politica11.  A questo punto della sua elaborazione (un punto in cui viene assunto in fabbrica Paolo Volponi ed a fungere da ghost-writer di Olivetti troviamo Luciano Gallino), Adriano Olivetti si rende consapevole del fatto che un’intrapresa positiva ha bisogno di un rapporto con la società il cui termine medio non può essere l’impresa (quindi ritorna alla politica fondando il Movimento di Comunità e dando vita alle Edizioni di Comunità) e che questo rapporto è, in definitiva, triangolare, dal momento che è, allo stesso tempo, un rapporto della fabbrica con la società e con il territorio. Olivetti - azienda diventa quindi anche un’ipotesi urbanistica, tanto ad Ivrea quanto successivamente a Pozzuoli.
Si può inoltre dire che, dopo Marx, Olivetti riscopra una legge fondamentale dello sviluppo sociale: il conflitto. Confondendo il fordismo ed il taylorismo, si è costruito un modello sociale nel quale il lavoro non è mai libero. Paradossalmente – come tra l’altro Olivetti ha teorizzato e praticato da “utopista” e “visionario” – negli Stati Uniti il principio di distinzione della scienza del lavoro e della tecnica del lavoro è un concetto quasi banale, mentre in Italia si persevera nella confusione e nella mortificazione della libertà del lavoro. Sotto questo versante, Olivetti comprende che anche il suo imprinting socialista non è sufficiente: la fabbrica non è un luogo armonico, bensì un luogo di dissonanze e di conflitto, ed è proprio il conflitto l’elemento che consente all’impresa di rimanere innovativa attraverso la ricomposizione di quella contraddizione ad un livello più alto. In buona sostanza, Olivetti compie un’operazione che poi, nel corso degli anni Settanta, sarebbe stata rovesciata, per miopia politica e pavidità imprenditoriale, nel suo contrario.
In Italia è pensiero comune delle classi dominanti ritenere che si debbano sconfiggere il lavoro e i suoi rappresentanti. Olivetti si colloca agli antipodi di questa visione, consapevole del fatto che è il lavoro stesso a porsi agli antipodi del ciclo produttivo, dal momento che il conflitto sposta in avanti i termini del confronto e della rappresentazione ed introduce sviluppo ed innovazione. Parafrasando Marx, si può dire che il conflitto rappresenti non solo la levatrice della storia, ma anche il motore dello sviluppo.
Olivetti si rende dunque conto che l’impresa, all’interno del sistema capitalistico, è luogo di “conflitto” e di “conflitti”, e che il conflitto non va cancellato, ma consolidato quale autentico fattore di sviluppo e di crescita.

Ambivalenze e problemi nella figura di Adriano Olivetti

Olivetti non ha né il feticcio del capitale, né il feticcio della merce, bensì ritiene che tanto il capitale quanto il lavoro siano le risorse necessarie in forza delle quali non solo il sistema cresce ma soprattutto evolve, perché il grado di autonomia e di criticità che produce il lavoro concorre a spostare il sistema lungo direzioni sempre più avanzate. Questo approccio, dal punto di vista del suo contributo culturale, supera la pulsione meramente visionaria, perché consente il passaggio da una società utopica “immaginata”, che non esiste nella storia, ad una società che, marxianamente, si pone i problemi cui è in grado di offrire una soluzione, capace di spingere sempre più avanti i termini del proprio sviluppo. Chi ha criticato Olivetti, non casualmente, lo ha criticato proprio su questo punto: la convergenza tra “capitale” e “lavoro” e l’organizzazione del conflitto in fabbrica come motore pilotato dello sviluppo, da cui sono derivate le critiche, simmetriche, di “pacificazione” del sistema delle relazioni industriali e di “coartazione” del conflitto di classe entro uno schema dato. È noto, ad esempio, che l’olivettismo sia stato anche letto come una strategia di pacificazione attraverso la conciliazione “comunitaria” degli interessi di classe antagonistici, attuata mediante la tattica della sostituzione del sindacalismo conflittuale con un «sindacato di comunità» interno alle logiche dell’Olivetti - azienda. La stessa de-sindacalizzazione da lui operata all’interno del sistema - Olivetti è stata letta alternativamente come il tentativo di coartare il libero sviluppo delle relazioni industriali e come il presupposto di un’organizzazione post-padronale del consenso interno alla filiera produttiva.
Le critiche colgono nel segno. Tuttavia non va dimenticato che, se dal punto di vista dell’Olivetti - imprenditore, tutte le critiche sono efficaci e il suo tentativo imprenditoriale si iscrive piena- mente nella logica degli interessi dominanti e nella struttura delle compatibilità capitalistiche, viceversa, dal punto di vista dell’Olivetti - intellettuale, la sua fabbrica in quanto comunità diventa il “laboratorio” o la koiné dentro la quale sviluppare un modello di produzione economica e di relazioni sociali ispirato, come detto, al socialismo umanitario12.
Si può certamente pensare che Olivetti sia stato un diabolico imprenditore che ha tentato di cancellare il conflitto di classe nella logica della conciliazione, della pacificazione e della cosiddetta “unità armonica”; in realtà, Olivetti organizza il suo sistema imprenditoriale (e le sue città imprenditoriali a partire da Ivrea), come “forma” del socialismo in terra, per approssimazioni successive. Olivetti impone la regola della completa adesione della teoria alla pratica: non si dimentichi che l’applicazione della sua teoria (umanistica) ha portato alla realizzazione di una pratica (imprenditoriale) straordinaria. Basti considerare che Olivetti realizza il primo sistema informatico in Europa, basato sul modello dell’“Olivetti Programma 101” la cui storia, peraltro, è tutta da raccontare13.  Va ricordato poi un altro punto, decisamente più oscuro, della sua figura e del suo lascito: il suo rapporto con la Cia14.  Non bisogna dimenticare che Olivetti spiccò, nel periodo del secondo dopoguerra, come uno dei pochi nemici in Italia, al tempo stesso, del Pci e della Dc, il che lo ha reso inviso ad un sistema nelle cui coordinate pure si collocava.
In un volume recentemente pubblicato negli Stati Uniti e non ancora edito in Italia, a cura di Stefania Lucamante, un saggio di  Claudia Nasini15 efficacemente mette in luce il senso del collega- mento di Olivetti con la Cia: quando in un passaggio riferisce della sua sollecitazione all’intelligence statunitense ad incoraggiare la creazione di una sinistra non comunista in Italia e quando, nel passaggio successivo, lamenta la progressiva degenerazione del sistema democratico italiano a causa del predominio su tutti gli aspetti della vita pubblica – soprattutto sulla vita istituzionale, sulla vicenda amministrativa e sulla regolazione economica – del monopolio del “partito unico” rappresentato dalla Democrazia Cristiana.
È nota la battuta di Marx per la quale gli operai possono collocarsi a sinistra per scelta ideologica, mentre gli imprenditori non smettono di fare i padroni per tutelare il proprio interesse. In altre parole, si sottovaluta spesso il fatto che il sistema imprenditoriale italiano non abbia mai del tutto accettato (né poi compiutamente fatto i conti con) Olivetti perché la sua figura era sostanzialmente “eversiva” e “problematica”. Ad esempio: voleva cancellare il conflitto o era cosciente dei limiti dell’imprenditore nel costruire un nuovo sistema economico? Olivetti assume il principio, tutto moderno, del “limite” del rapporto tra impresa e società e tra lavoro e società. Paolo Volponi assunto da Olivetti rappresenta il tentativo diabolico di ingraziarsi l’intellettuale non organico o lo sforzo di cimentarsi da pari con problemi storici che vanno risolti?
Più volte negli scritti di Olivetti si pone risalto al fatto che ciò che lo impegna maggiormente sia “la soluzione”, non “il problema”. Anche la soluzione, tuttavia, è parziale: quando Olivetti si cimenta nel realizzare un’impresa di tipo nuovo e un modello industriale completamente innovativo, che avrebbe tra l’altro richiesto anche un movimento imprenditoriale e un movimento sindacale del tutto diversi, mostra di essere consapevole sia dell’incoercibilità del conflitto sia dei limiti di quest’impresa.
L’operazione di Olivetti ha dunque una prospettiva complessa perché si sforza di sintetizzare tra istanze culturalmente e socialmente divergenti e perché punta ad organizzare il conflitto come vicenda “normale” delle relazioni industriali e dei rapporti sociali. Il conflitto, a sua volta, non solo determina condizioni di equilibrio sempre più avanzate ma contribuisce in maniera decisiva a cambiare il lavoro e l’impresa, fino a prefigurare soprattutto un cambiamento sociale, tanto più ammissibile se concepito nella logica olivettiana della fabbrica-territorio e della fabbrica-comunità. Nella storia sindacale delle aziende Olivetti si vede chiaramente come il conflitto non sia mai scomparso ed anzi come il lavoro rappresenti una datità autonoma portatrice di innovazione e di sviluppo. Nel merito, il tentativo di Olivetti costituisce forse la rappresentazione più coerente di come si possa essere socialisti nel mondo attuale. Non a caso, come ha ricordato Luciano Gallino, citando in parte lo stesso Olivetti: «Gli operai avevano un salario che era in media superiore dell’80% a quello delle altre fabbriche e potevano contare su una sorta di stato sociale, asili, scuole, ambulatori, biblioteche e case per dipendenti, che rappresentava una realtà estremamente avanzata nell’Italia degli anni Cinquanta. Alla base di tutto c’era il patto tra l’azienda ed i lavoratori che era la filosofia di Olivetti. L’azienda chiedeva molto ma dava molto. Nel sistema attuale il posto di lavoro sembra una concessione. Ma non si può dimenticare che ogni profitto nasce dal lavoro»16.

Il contributo del lavoro alle forme estetiche e letterarie

Il problema è che oggi “non c’è più” il lavoro, nel senso che è venuto meno un movimento sociale, civile e culturale ancorato nel lavoro e capace di fare vivere una parte intera di società che nel lavoro si riconosce, si esprime e si realizza. Il lavoro, pertanto, si pone come istanza di costruzione di società, essendo tale per i suoi tre aspetti decisivi: come energia creativa, come realizzazione personale e come liberazione sociale. Marx è il primo a cogliere la datità del lavoro in tutti questi aspetti. A voler sintetizzare ancora più radicalmente, si potrebbe dire, ancora con Marx, che il lavoro è libertà.
Il contributo letterario più notevole sul tema non è un romanzo ma un saggio di Marco Revelli, Oltre il Novecento17.  Il saggio introduce il concetto filosofico dell’eterogenesi dei fini all’interno della dinamica storico-sociale ed applicandolo alla lettura di quelle che l’Autore chiama le tre “barbarie” del Novecento: il comunismo burocratico, il nazionalsocialismo tedesco e la Shoah. Dal punto di vista logico-razionale, la tragedia del Novecento è però rappresentata dal comunismo burocratico, attraverso gli aspetti degenerativi nei quali si è storicamente affermato in determinati contesti storico-sociali, perché, a differenza del nazionalsocialismo che conserva una ferrea corrispondenza tra obiettivi, fini e mezzi ed a differenza della Shoah che, nella sua eclatante tragedia, conserva tuttavia una logica razionale per quanto aberrante, consistente nell’applicazione scientifica di un piano di cancellazione di un popolo intero sulla base di una volontà politica, il comunismo burocratico tradisce il valore intrinseco del comunismo stesso.
È sulla base di questo presupposto “esegetico” che Marco Revelli può proseguire “oltre”, lungo il suo saggio, spingendosi fino ad un’analisi molto stimolante del lavoro e del rapporto tra produzione materiale e produzione intellettuale, sostenendo che il comunismo burocratico si configura come una tragedia storica perché tradisce il suo concetto originario che era ed è quello della liberazione del lavoro. Quando si parla, in particolare, di rapporto tra produzione materiale e produzione intellettuale si parla anche, in subordine, delle forme estetiche della rappresentazione di determinati contenuti, tra cui, ancora una volta, il lavoro. È in questa cornice che si inscrive il discorso, complesso e variegato, sulla letteratura e l’industria. Qui più che altrove vale la pena di considerare la letteratura in tutte le forme nelle quali si esprime: come letteratura scritta, vale a dire attraverso i generi letterari; come letteratura disegnata, vale a dire attraverso il fumetto; e come letteratura visiva, vale a dire attraverso il cinema.
Dal punto di vista delle forme scritte, la letteratura ha interrogato il lavoro dentro la società, in primo luogo, con il capolavoro di Carlo Bernari, Tre Operai, che rappresenta il lavoro come sconfitta della società e mette in scena degli operai che sono dei “vinti”, in un rapporto di continuità storico-letteraria con i vinti di Giovanni Verga18.  Il tema del lavoro entra dunque nella letteratura italiana con i Tre Operai che rappresentano la vicenda del lavoro come sconfitta del soggetto nel contesto storico segnato dalla tirannide fascista.
Dopodiché si entra in una nuova fase, quella del secondo dopo- guerra, in cui le forme letterarie si aprono all’interpretazione e al cambiamento del reale, complici lo sviluppo industriale legato alla ricostruzione ed il fatto stesso della ricomposizione morale e materiale del Paese nel nuovo contesto democratico e repubblicano. È il periodo di Olivetti e degli intellettuali impegnati nella “fabbrica- comunità”: Paolo Volponi ed Ottiero Ottieri in particolare.
Memoriale è il testo - simbolo di questo frangente storico e culturale19.  È la storia di Albino Saluggia, contadino del Canavese che, rientrato dall’esperienza tragica del lager, trova lavoro nella fabbrica da poco costruita. L’ambiente della fabbrica ha un aspetto mostruoso agli occhi del contadino travolto dal boom: un edificio gigantesco ai cui ritmi sono legate le vite degli operai. Nel ventre del mostro regnano ordine, organizzazione e pulizia e gli operai sono alle prese con un lavoro duro sotto il comando ostile di un capo-reparto implacabile. Proprio questa immagine di efficienza impersonale concorre a rendere la fabbrica un luogo diabolico, fonte di ansia, nevrosi ed alienazione.
Subito dopo esplode il Sessantotto ed esce un romanzo formidabile, il capolavoro di Philip K. Dick: Ma gli androidi sognano pecore elettriche?20.  Questo romanzo, che è, tra i capolavori, uno dei meno letti della storia della letteratura, è però uno dei più visti della storia del cinema, dal momento che ha ispirato il film Blade Runner. Tutti, vedendo il film, si interrogano sulla componente decisiva del romanzo che è il “libero arbitrio”, ma nessuno sembra essersi mai interrogato sull’aspetto fondamentale della narrazione: chi siano gli androidi che popolano la vicenda. Gli androidi non sono i soldati della presunta cospirazione: sono i lavoratori del futuro e poiché il lavoro è, nel futuro che diviene presente, espulso dalla società, allora si impone il bisogno di costruire delle macchine per eseguire il lavoro. Questi lavoratori del futuro, però, a un certo punto, si ribellano al lavoro: la componente intrinseca della libertà personale finisce, nello schema di oppressione e di alienazione che riserva questo futuro, per diventare un elemento eversivo, il quale, a sua volta, fornisce all’individuo una coscienza di sé.
Il lavoratore è concepito nel sistema d’impresa come una macchina per produrre merci, ma acquisisce consapevolezza della funzione del proprio lavoro e chiede di essere rappresentato e di auto-rappresentarsi, accedendo alla sfera della soggettivazione. Nella storia della letteratura industriale dopo il 1968 c’è il 1972 e compare sulla scena un nuovo archetipo del rapporto letteratura-industria: il suo nome è Gasparazzo, il suo autore è Roberto Zamarin21.  Gasparazzo, per uno di quei giocosi eventi letterari che pure non sono infrequenti nella letteratura italiana, è un nome di fantasia che nasconde però un contenuto radicato nel reale.
Il “vero” Gasparazzo, che ne ha ispirato la storia, si chiamava Calogero Ciraldo Gasparazzo. Costui, nel 1860, credendo che Garibaldi, nella sua discesa in Sicilia, avesse intenzione di liberare le masse lavoratrici e contadine siciliane, organizza la rivolta di Bronte: solleva le masse, organizza un processo popolare, uccide gli agrari, prende il potere, salvo poi attendere l’arrivo del generale Nino Bixio che, giunto sul posto, restaura l’ordine ed uccide i rivoltosi. Zamarin, a distanza di un secolo, inventa una vera e propria sorpresa letteraria: immagina che l’erede omonimo di Gasparazzo emigri da Bronte e vada a lavorare come operaio in Fiat. Nel leggerne le strisce, si assiste alla rappresentazione visiva dell’operaio - massa, in un’epoca, peraltro, in cui la figura dell’operaio - massa, all’inizio degli anni Settanta, era già in declino. L’operaio ritorna dunque come soggetto letterario e narrati- vo, consapevole di sé e del proprio ruolo nella società.
Sul finire degli anni Settanta compare infine un altro capolavoro del rapporto letteratura - industria, La Chiave a Stella di Primo Levi, anche questo apparentemente “marginale”, poco noto, poco letto ed ancor meno studiato22. È  il libro che tratteggia l’elogio del lavoro, nella forma insieme di “lavoro liberato” e di “lavoro costruttivo”, più clamoroso della storia della letteratura del Novecento italiano. Il suo protagonista si chiama Libertino Faussone ed è un operaio costruttore che gira il mondo e ne legge le vicende attraverso la sua «chiave a stella». È una apoteosi della letteratura industriale, in quanto narrazione, insieme, figurativa e figurale, del senso del lavoro produttivo di valore, attraverso un operaio che costruisce il mondo e costantemente si misura con sé stesso e con la sua opera.

Ipotesi in prospettiva

Siamo dunque, per riprendere la tesi di Revelli, Oltre il Novecento, con la figura di un operaio che intende cambiare il mondo perché vuole liberare il lavoro, una figura nella cui filigrana e nella cui vicenda di costruzione del reale e di lotta contro l’alienazione si colgono due tra i significati più intensi e sinceri della vicenda letteraria industriale nel nostro Paese. È come se Faussone, in questo gioco combinatorio e letterario, realizzasse un vero e proprio “paradiso” in terra, personalmente e con la sua «chiave a stella». Il volume consegna anche un lascito all’attualità. La conclusione della parabola della letteratura industriale in Italia segnala con ancora più forza l’urgenza di ritornare a discutere – non solo nella letteratura – del lavoro e del lavoro industriale in particolare.
È un fatto che l’ultimo libro che si sia direttamente interessato alla vicenda operaia in Italia sia Operai di Gad Lerner, in prima edizione nel 1987, in seconda edizione nel 201023.  Significa che il lavoro è stato effettivamente rimosso, per giunta in un periodo in cui ci sarebbe molto da scriverne, non solo perché il lavoro è cambiato ma soprattutto perché, oggi più di ieri, la presenza e l’assenza del lavoro condizionano in maniera determinante la trama delle relazioni sociali, le forme della raffigurazione estetica, in una parola, i destini individuali e collettivi.

[pubblicato in: Aa.Vv., a cura di Gianmarco Pisa, Lamiere, Ad est dell'equatore, Napoli, 2012.]

Note

1 L’affermazione di Henry Ford: «Ogni cliente può ottenere una Ford T colorata di qualunque colore desideri, purché sia nero» è riportata nella sua auto-biografia My Life and Work (1922), pp. 71-72. [torna]
 2 Sugli effetti sociali dell’emigrazione si veda un esempio di “letteratura visiva” come Trevico - Torino - Viaggio nel Fiat-Nam, film del 1973 della Unitelefilm, casa cinematografica del PCI: il film, scritto e diretto da Ettore Scola, vede come sceneggiatore il già sindaco di Torino Diego Novelli. [torna]

3 Sul tema del “dualismo territoriale” dello sviluppo, si veda A. Graziani, L’economia italiana dal 1945 ad oggi, Il Mulino, Bologna, 1972. [torna]

4 Sulla figura di intellettuale, imprenditore e politico, di Adriano Olivetti si vedano: Da- vide Cadeddu, Il valore della politica in Adriano Olivetti, Quaderni della Fondazione A. Olivetti, Ivrea, 2007; Beniamino Liguori Carino (a cura di), Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960), Quaderni della Fondazione A. Olivetti, Ivrea, 2008; Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. Industriale e Utopista, Cossavella, Ivrea, 2000. [torna]

5 Olivetti inizia la sua esperienza lavorativa come operaio nell’azienda paterna. Questo resterà un punto fermo nella sua riflessione, tornandovi spesso, come quando afferma: «Conosco la monotonia dei gesti ripetuti, la stanchezza dei lavori difficili, l’ansia di ritrovare, … a casa il sorriso di una donna e di un bimbo», in A. Olivetti, “Ai lavoratori d’Ivrea”, in Città dell’Uomo, Ed. Comunità, Milano, 1960, p. 183. [torna]

6 Uno dei testi più importanti di A. Olivetti è intitolato L’ordine politico delle Comunità. Le garanzie di libertà in uno Stato socialista, Nuove Edizioni Ivrea, Ivrea, 1945. [torna]

7 Così Adriano Olivetti compendia il suo pensiero in una lettera a Grazia Galletti del 1948: « ... compiere il mio dovere che è lavorare, come servo di Dio, a costruire la sua città, là dove sarà finito il regno del Denaro [...] [Io] non posso tradire la mia missione che è socialista e cristiana [...], devo vivere come uomo e non come santo, altrimenti mancherei alla mia missione che è di agire e creare ... ». [torna]

8 «L’impresa deve essere associata a una comunità, divenendo un centro di cooperazione e partecipazione di tutti coloro che vi sono interessati e che hanno lo stesso fine: la libera ed armoniosa crescita della fabbrica e della comunità. […] A questo scopo pensiamo che la proprietà e il controllo dell’azienda debbano essere affidati ad una compartecipazione organica di tutte le forze vive della comunità, rappresentative di enti territoriali, sindacali e culturali». Cfr. A. Olivetti, “La fondazione proprietaria”, in Città dell’Uomo, Edizioni di Comunità, Milano, 1960. [torna]

9 Adriano Olivetti, afferma che «la gioia nel lavoro … potrà finalmente tornare a scaturire allorquando il lavoratore comprenderà che … il suo sacrificio è legato ad un’entità nobile ed umana che egli è in grado di percepire, misurare, controllare poiché il suo lavoro servirà a potenziare quella Comunità … laddove egli ed i suoi figli hanno vita, legami, interessi». Cfr. A. Olivetti, “L’industria nell’ordine delle comunità” in Società, Stato, Comunità, Edizioni di Comunità, Milano, 1952. [torna]

10 «La civiltà occidentale si trova […] alla sua scelta definitiva. Giacché le straordinarie forze materiali che la scienza e la tecnica hanno posto a disposizione dell’uomo possono essere consegnate ai nostri figli, per la loro liberazione, soltanto in un ordine sostanzialmente nuovo, sotto-messo ad autentiche forze spirituali […]: l’amore, la verità, la giustizia [...]. Se le forze materiali si sottrarranno agli impulsi spirituali, se l’economia, la tecnica, la macchina prevarranno sull’uomo.., l’economia, la tecnica, la macchina non serviranno che a congegnare ordigni di distruzione». Cfr. A. Olivetti, “Le forze spirituali” in Città dell’Uomo, Edizioni di Comunità, Milano, 1960. [torna]

11 «Può l’industria darsi dei fini? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, anche nella vita di una fabbrica?». Cfr. “Ai lavoratori di Pozzuoli”, discorso per l’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli, 23 Aprile 1955, in id., Città dell’Uomo, Edizioni di Comunità, Milano, 1960. [torna]

12 Cfr. Giulio Sapelli, “La responsabilità davanti alla storia”, in La Sentinella del Canavese, n. 7 a. 2001. [torna]

13 Pier Giorgio Perotto, Programma 101. L’invenzione del personal computer: una storia appassionante mai raccontata, Milano, 1995. [torna]

14 Si veda il lavoro di Francesco Gui, Classified. Adriano Olivetti ha chiesto di essere ascoltato, in “Eurostudium3w”, Ottobre - Dicembre 2006. [torna]

15 C. Nasini, “Contrastare il monopolio del partito unico: Olivetti per il Partito Socialista contro la Democrazia Cristiana”, in Stefania Lucamante (a cura di), Italy and the Bourgeoisie: Re-Thinking of a Class, Associated University Press, Cranbury, New Jersey, U.S.A. 2010. [torna]

16 Cfr. Clara Caroli, “Quando gli americani erano indietro di dieci anni”, Intervista a L. Gallino, la Repubblica, Torino, 6 Novembre 2010, p. 19. [torna]

17 Cfr. Marco Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino, 2001. [torna]

18 Carlo Bernari, Tre Operai, Rizzoli, Milano, 1934; ristampa Marsilio, Venezia, 2011. [torna]

19 Paolo Volponi, Memoriale, Einaudi, Torino, 1962. [torna]

 20 Philip K. Dick, Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968; ed. it. P. K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2000. [torna]

 21 Roberto Zamarin, Gasparazzo, Samonà e Savelli, Roma, 1972. [torna]

22 Primo Levi, La Chiave a Stella, Einaudi, Torino, 1978. [torna]
23 Cfr. Gad Lerner, Operai, Feltrinelli, Milano, 1987. [torna]

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