In questa breve esposizione, la nostra attenzione si soffermerà sulle problematiche proprie delle imprese che operano in distretti industriali cercando di individuare gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo dei sistemi locali nella nostra realtà.
Per molti anni, anche nel sindacato, si è sostenuto che l’unica dimensione industriale capace di infondere occupazione, attivare significativi processi produttivi, innescare meccanismi di sviluppo, fosse quella della grande impresa.

In ragione di ciò si è incentivato la localizzazione nel Mezzogiorno di grande industrie di base a capitale pubblico che però sono servite soprattutto a fornire all’industria del Nord materie prime di difficile produzione privata.
La mutata realtà socio-economica che ha visto raffermarsi del modello di impresa a rete e lo sviluppo di realtà territoriali capaci di internazionalizzare i propri mercati hanno indotto molti studiosi ad interpretare le nuove dinamiche industriali ed il rifiorire della piccola impresa attraverso nuovi paradigmi che noi riteniamo utili per costruire una ipotesi di sviluppo per la nostra regione. La piccola impresa spesso è stata rappresentata come una struttura a basso tasso di innovazione, con scarse competenze manageriali, effetto delle politiche di decentramento sul territorio della grande azienda. Adesso, invece, la piccola impresa, in ragione della capacità che ha dimostrato di interagire dinamicamente con il mercato e di adattarsi ai rapidi mutamenti ambientali, è considerata, nella pubblicistica corrente, un fattore importante per la creazione di nuovi posti di lavoro nell’industria manifatturiera e nel terziario avanzato.

La distinzione introdotta nell’approccio analitico non già tra imprese grandi e piccole bensì tra sistemi, comporta lo spostamento dell’oggetto dell’analisi e delle politiche industriali da un approccio di tipo settoriale ad uno di tipo territoriale.
Un sistema locale è un sistema virtualmente autonomo, dotato di una logica autoriproduttiva, una struttura e una propria, autonoma, organizzazione.
Il mercato è l’ambiente nel quale opera questa molteplicità di sistemi.
Ogni sistema produttivo interagisce in modo selettivo con l’ambiente, gli input provenienti dall’esterno sono filtrati da una chiusura operativa, vengono tradotti nel codice dei principi operativi del sistema stesso, ricondotti alle sue peculiarità.
I mutamenti provocati al sistema locale dagli impulsi esterni avvengono, quindi, secondo le regole del sistema stesso, il sistema locale instaura un meccanismo di mutua cooperazione col sistema globale, non è semplice oggetto delle trasformazioni bensì agente, interagisce con l’universo, il sistema globale, da questi ne è trasformato e, innovandosi, contribuisce a modificare il sistema complessivo, il proprio contesto operativo. Possiamo affermare che il sistema locale riverbera le innovazioni sul territorio, non le chiude nell’ambito nel quale si sono prodotte.
La maggiore reattività ai cambiamenti ambientali consente, alle piccole imprese, una maggiore capacità di trasmettere al sistema complessivo elementi di trasformazione .
Le realtà locali sono virtualmente autonome, nel loro insieme, concorrono a costituire il sistema globale che è l’insieme dei singoli elementi che lo compongono e in esso operano.
Per cui il sistema imprenditoriale è definibile come una rete e di converso, il singolo sistema locale è un nodo della rete stessa.
Il mercato, quindi, è esprimibile come il risultato prodotto dall’interagire tra le azioni prodotte dai diversi sistemi di offerta, i sistemi locali, le grandi imprese, le multinazionali.
In questo sistema relazionale tutti i nodi della rete, le imprese, sono potenzialmente equipollenti e possono attivare gli stessi meccanismi di interscambio.
I distretti, come sistemi locali, come d’altro canto le multinazionali, si possono presentare deboli o forti ma questo dipende dall’efficacia dei meccanismi di interazione con l’ambiente che il sistema considerato riesce ad attivare.

In base all’approccio qui proposto, i sistemi produttivi possono essere classificati in funzione delle relazioni che essi realizzano con l’ambiente esterno a quelle che si determinano nella loro organizzazione e al tipo di controllo che il sistema stesso ha sulle relazioni che sviluppa.
La grande impresa fordista espandendosi è portata a moltiplicare le funzioni esecutive, di controllo e di coordinamento per essere recettiva agli stimoli del mercato e comunicare con l’ambiente esterno.
L’aumento delle funzioni genera strutture burocratiche interne sempre più complesse e difficili da gestire. Si determina una sorta di sclerosi organizzativa, si rallenta la velocità di funzionamento del sistema d’impresa e la sua capacità di risposta ai rapidi cambiamenti sollecitati dal mercato
Per risolvere questi problemi la grande impresa post- tayloristica ha riorganizzato la propria struttura attraverso il decentramento orizzontale, lasciando discreti margini di autonomia alle imprese acquisite nel processo di crescita e, per questa strada, ha dato vita ad un modello di impresa a rete per certi versi simile, nelle sue dinamiche di funzionamento interno, ai sistemi industriali locali.
Le grandi imprese, riorganizzate su un modello di funzionamento interno flessibile, hanno prestazioni positive e un grado di recettività ai mutamenti ambientali assimilabile al comportamento delle piccole imprese innovative.
Le grandi imprese verticalizzate hanno un unico centro strategico che opera come regolatore dei processi comunicativi, il sistema è controllato, il centro filtra gli input e li traduce in decisioni che le varie strutture rendono operative, questo sistema è molto aperto all’esterno per la gestione delle risorse: lavoro, materie prime, domanda dei prodotti.
L’impresa-rete ha piena percezione dei limiti del modello fordista, ha studiato il sistema locale e lo reinterpreta mantenendo per questa via la funzione di controllo centrale sul sistema.
Grazie ad una organizzazione flessibile, costituita da una fitta rete di relazioni tra filiere locali, struttura globale e ambiente esterno, agisce nelle perturbazioni del mercato ed inserisce i sistemi locali in una nuova dimensione gerarchica.

I distretti si strutturano, dal punto di vista funzionale, come sistema non controllato, policentrico, le imprese che vi operano sono tra loro concorrenziali e cooperative, il distretto si configura come un soggetto unitario e autonomo: un network; il frutto di una capacità diffusa del sapere. Possiamo affermare che il sistema locale si struttura in base a un proprio dominio cognitivo, non trasmette passivamente le informazioni esterne al suo interno ma le metabolizza secondo le proprie modalità di ricezione, selezionandole in relazione al proprio codice.
Il distretto si caratterizza per la capacità sinergica dei singoli soggetti che, pur mantenendo una forte spinta individuale al lavoro e all’impresa, si sentono parte di una crescita collettiva.
L’introduzione del concetto di sistema locale ci consente di evitare l’errore di ridurre il sistema territoriale di imprese alla somma delle singole imprese che lo costituiscono, e del quale rappresentano semplicemente il particolare o la somma dei particolari, riuscendo, grazie a questo tipo di approccio, a cogliere la complessità dell’insieme, ad analizzare le dinamiche reali di funzionamento. L’approccio sistemico assumendo come unità di analisi il sistema di imprese invece della singola azienda, ci consente, per l’appunto, di interpretare il movimento reale di funzionamento di quelli che qui sono stati definiti come sistemi locali.
Il distretto industriale ha una sua specificità, si può definire il luogo sociale – prima ancora che economico – dove le economie esterne alla singola impresa, concentrandosi territorialmente, diventano l’economia interna del sistema che, in questo modo, realizza significativi margini di competitività rispetto ad altre strutture produttive.
La scala da assumere a riferimento, l’elemento comparabile, è il sistema locale, proprio in ragione dell’interdipendenza tra le aziende e tra la singola azienda e il suo contesto.

In questi anni le piccole imprese hanno costituito una sorta di rigenerazione del mercato e delle forze imprenditoriali mettendo in circolo, dal basso, nuove energie e competenze, contribuendo, in maniera significativa, alla costituzione di un nuovo ceto imprenditoriale.
Alcuni studiosi hanno introdotto il concetto che grande impresa e piccola impresa isolata non sono confrontabili. Hanno parlato di incomprensibilità della piccola dimensione all’infuori dell’insieme di riferimento introducendo il concetto che l’economia esterna alla piccola impresa inserita in un sistema locale, è l’economia interna al sistema.
La piccola impresa da sola non può competere con la grande ma, attraverso processi di cooperazione, integrazione e complementarità con altre imprese, può costituire un sistema che, invece, può confrontarsi anche in modo concorrenziale con la grande impresa che opera nel suo stesso segmento di mercato.
Quando ci troviamo in presenza di processi di integrazione e complementarità che si esplicano in un rapporto dinamico nel quale convivono elementi di concorrenzialità e cooperazione ed in assenza di legami formali tra le imprese operanti sul territorio si ha il caso di un sistema di imprese.
È questo sistema di imprese, il sistema locale; che va analizzato e, nel caso, messo in correlazione con la grande impresa.
Si può affermare che esistono diversi modi e possibilità di organizzare i processi produttivi e, conseguentemente, i rapporti sociali di produzione, ognuno dei quali, a certe condizioni, economiche, sociali e politiche, è in grado di reggere la sfida del mercato.
Il soggetto dello sviluppo non è la singola impresa bensì il sistema di relazioni economiche e sociali nel quale l’impresa è collocata.
La chiave di volta per spiegare il funzionamento del sistema, la sua coesione interna e le sue performance è il network relazionale che si realizza nell’ambito territoriale.
Il territorio, l’ambito urbano, è il supporto necessario per lo sviluppo di sistemi integrati di piccole imprese, il luogo possibile della ricostruzione di una rete di relazioni di produzione in grado di permettere la nascita, lo sviluppo e l’affermazione di forze produttive endogene al sistema locale e quindi garantire una duratura crescita dell’economia meridionale.

La realizzazione di politiche a sostegno delle piccole imprese chiama immediatamente in causa la discussione sul superamento delle forme nelle quali si è realizzato fin qui l’intervento straordinario a sostegno dell’economia meridionale.
Gli interventi finanziari a pioggia hanno nei fatti avuto una funzione patogena incoraggiando, spesso, un’imprenditorialità o assistita o dipendente dal potere politico o truffaldina.
La realtà odierna del Mezzogiorno non ha macroscopici divari nella capacità di spesa, permangono sensibili differenze di reddito rispetto al Paese, deve recuperare un gap che permane e per certi versi si accentua di produttività, di occupazione e di posizione occupata nella scala tecnologica rispetto all’area del Centro-Nord. Per eliminare queste storture la strada non è l’aumento del reddito pro-capite, non serve il perpetrarsi di politiche che determinano un artificioso aumento del benessere meridionale finanziando politiche di trasferimento di reddito alle persone e alle imprese, serve una politica di sostanziosa espansione della base produttiva della regione, un suo innalzamento tecnologico che assicuri, per questa via, nuova ricchezza e nuovo reddito.
Il quadro di riferimento generale di una corretta politica industriale è il processo di unificazione del mercato europeo e la conseguente opera di armonizzazione delle singole politiche regionali, dei Paesi aderenti, che la Unione Europea sta realizzando.
Acquisita la necessità di superare una impostazione settoriale e di abbandonare una fallimentare impostazione che ha visto l’allocazione al Sud di pezzi di grandi imprese senza cervello e incapaci, nei fatti, di irrorare cultura imprenditoriale sul territorio, le politiche industriali devono trasformarsi in politiche di intervento attivo sul territorio ed essere finalizzate alla rimozione degli ostacoli che si frappongono, in loco, allo sviluppo di una imprenditorialità diffusa.
Le politiche industriali per assumere il carattere di politiche utili a sostenere lo sviluppo, devono abbandonare la linea dell’incremento della dotazione finanziaria che privilegia l’incentivo alla semplice costituzione di nuove imprese a favore di politiche che, invece, facilitino il processo di acquisizione e diffusione di competenze tecnologiche delle imprese.
Lo spostamento dell’asse delle politiche dai settori ai distretti si concretizza nel sostegno alla nascita e allo sviluppo di servizi reali orientati non alla singola impresa bensì al sistema di imprese.
Il ruolo nuovo delle istituzioni statali va ricercato nella funzione di superamento delle storture determinate dal mercato.
Nel Mezzogiorno va rimosso il circolo vizioso per cui non c’è offerta di servizi qualificati perché non c’è domanda, non c’è domanda perché, sul territorio locale, non c’è offerta. L’offerta pubblica deve rendere disponibili, a costi compatibili, servizi innovativi al sistema delle piccole imprese.
Le strozzature che ostacolano lo sviluppo dei sistemi locali sono determinate, prevalentemente, da due fattori: le competenze, la gestione delle informazioni.
Le piccole imprese incontrano notevoli difficoltà ad acquisire, in tempi utili, le competenze necessarie ad affermare un loro ruolo dinamico sul mercato e a esercitare un potere di controllo.
In un mercato che oramai si globalizza è importante la possibilità di certificare la qualità dei propri prodotti, possedere la conoscenza sugli standard ai quali uniformarsi per la presenza sui vari mercati spesso distanti dal luogo dove si opera, dei temi e delle modalità necessarie per partecipare a gare o aste internazionali, l’acquisizione delle competenze necessarie per l’utilizzazione di tecnologie informatiche che rendono disponibili le innovazioni di prodotto e di processo, le conoscenze, in tempo utile, sulle tendenze del gusto e della moda in un determinato mercato.
Infine, in una fase di flessione degli utili e dei margini di guadagno, è indispensabile, per reggere la sfida della competizione globale, investire in attività promozionali, curare la propria immagine, accedere ai canali pubblicitari. La risorsa informazione ha una sua precipua importanza anche per far emergere una domanda consapevole di questi servizi. Spesso la piccola impresa non sa dare risposte alle difficoltà che incontra, percepisce bisogni ed esigenze ai quali non è in grado di dare risposte compiute, non ha percezione del problema, spesso non sa che è risolvibile a costi contenuti semplicemente cambiando tecnologie.
Si tratta, in primo luogo, di creare la domanda di servizi, formare le competenze e le capacità, rendere disponibili le informazioni, costruire il tessuto connettivo in grado di generare il meccanismo auto-formativo, autopropulsivo che trasforma un semplice aggregato territoriale di imprese industriali in un sistema locale.
In questa logica si muove la legge 317/91, Interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese, la legge è nata con lo scopo di risolvere i problemi che le piccole imprese affrontano nel loro sviluppo.
Ci sembra utile richiamare gli interventi previsti dal legislatore:

  • aumento del capitale di rischio attraverso finanziarie per l’innovazione e lo sviluppo;
  • promozione di società a capitale misto pubblico - privato per la erogazione di servizi reali alle piccole imprese;
  • incentivi all’acquisizione di servizi reali innovativi e a programmi di ricerca delle piccole imprese;
  • agevolazioni alla organizzazione di reti commerciali all’estero;
  • disposizioni a favore delle imprese operanti in zone di declino industriale o in settori in crisi;
  • sostegni ai consorzi di piccole imprese;
  • sostegni ai centri di innovazione imprenditoriale;
  • sostegni a consorzi di garanzia collettiva, fidi di primo e secondo grado;
  • prestiti partecipativi concessi da istituti di credito e dalle finanziarie per l’innovazione;
  • regolamentazione dei distretti e dei consorzi di sviluppo industriale;
  • allargamento dell’area di intervento dell’Artigiancassa;
  • aumento dell’operatività della legge 46 a favore delle piccole imprese.

Il ventaglio di interventi previsti dalla legge sposta il baricentro dell’intervento dalla logica dell’assistenzialismo burocratizzato a quella della valorizzazione dei sistemi locali.
La nostra iniziativa per lo sviluppo della economia meridionale non può dispiegarsi con efficacia se non affronta l’altra questione che tarpa le ali alla crescita del Mezzogiorno: l’assenza di una moderna politica per la formazione.
È indubitabile che la formazione, incrementando il patrimonio di conoscenza e di informazioni dell’impresa, contribuisce alla crescita di valore dei beni e dei servizi offerti dall’impresa stessa nonché al funzionamento dei suoi processi tecnologici ed organizzativi. Le risorse invisibili dell’organizzazione, la tradizione, le conoscenze, l’attitudine al cambiamento, si affermano ormai come la vera fonte del vantaggio competitivo.
L’impresa di successo è quella che apprende in modo più efficace ed efficiente rispetto al mercato ed ai concorrenti. L’apprendimento è la base di ogni strategia: la turbolenza tecnica, sociale e politica porta anche le organizzazioni e le istituzioni più stabili ad adottare, se vogliono sopravvivere, un orientamento all’apprendimento.
Il contesto formativo è un intreccio di pratiche quotidiane, funzioni e compiti che contribuisce alla diffusione di informazioni e conoscenze o, viceversa, è un fattore di ritardo e di resistenza all’innovazione.
Il sistema formativo non funziona male soltanto qui da noi, regione del sud, se è vero che la Liguria non riesce a produrre piani decenti per l’utilizzo dei fondi della legge per l’innovazione della formazione o che la Lombardia riesce ad utilizzare solo in parte gli stanziamenti del Fondo Sociale Europeo (F.S.E.).
Il sindacato potrebbe essere un soggetto attivo, realista e pragmatico, rivendicando un tavolo di coordinamento istituzionale nazionale e, soprattutto, regionale su tutte le questioni trasversali, compreso l’orientamento e l’integrazione tra studio e lavoro anche per le fasce alte della formazione, che veda la presenza del Ministero del Lavoro, della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica e del Coordinamento delle Regioni che restano il luogo ideale di governo del sistema nonché di raccordo con il mercato del lavoro.
Ci vuole una strumentazione operativa per far fronte ai problemi degli standard formativi, della valutazione, della certificazione.
Si deve passare da una formazione prevalentemente iniziale o in uscita dalla scuola ad un sistema di formazione ricorrente e continua, che comprenda le riqualificazioni, i contratti di formazione/lavoro e di apprendistato.
Bisogna rivedere l’attuale sistema di finanziamento per renderlo più certo, agile e trasparente, istituendo un fondo nazionale, alimentato dalle risorse comunitarie e dal contributo del sistema delle imprese.
Le parti sociali devono sviluppare una iniziativa autonoma utilizzando strumenti, gli enti bilaterali, che hanno le potenzialità per divenire terreno concreto per una compiuta democrazia economica.
Per il buon governo del sistema vanno chiaramente definiti i ruoli che ciascun attore è chiamato a giocare e che questi siano coordinati tra loro:

  • la scuola deve assicurare la cultura di base, con una durata dell’obbligo scolastico in linea con gli altri paesi europei;
  • la formazione professionale deve aiutare l’inserimento nel mondo del lavoro sia a livello di post-diploma che a livello di post-laurea;
  • l’università deve occuparsi dei rami alti della formazione e della ricerca;
  • le parti sociali devono rendere possibile la formazione continua dei lavoratori.

Nella realtà bisogna partire dal concetto base di professionalità: capacità di dominare la nuova circolazione delle informazioni nell’impresa e contrattare il tipo di formazione, per fornire ai partecipanti capacità culturali e critiche; i destinatari, rivolgendosi, se possibile, a tutti i lavoratori dell’impresa; chi esegue la formazione; gli effetti, tutto questo va finalizzato al raggiungimento degli obiettivi.
Va perseguito, inoltre, un indirizzo generale a cui far capo, indirizzi, orientamenti, regole certe del fare formazione attraverso il quale creare un vero e proprio ragionamento complessivo sul rapporto tra formazione di base (scolastica) e formazione al lavoro e sul lavoro per una migliore gestione del mercato del lavoro.

Quanto detto non basta per contrattare con efficacia politiche di sviluppo, va anche superata una impostazione mono-culturale che spesso contraddistingue le politiche contrattuali delle singole organizzazioni di categoria.
Lo sviluppo armonico del territorio regionale richiede il superamento di localismi e particolarismi, la nostra regione, la sua area metropolitana, hanno bisogno di sviluppo diffuso, policentrico, servono anche le industrie, il terziario, il quaternario, i trasporti, la dimensione regionale e quella locale.
Lo sviluppo o è policentrico, equilibrato, o è effimero, la regione, il suo capoluogo, il Mezzogiorno, sono legati da un indissolubile equilibrio, sojo la ricostruzione di questo equilibrio su un terreno più avanzato ci può portare a vincere la sfida del mercato europeo.
Nella nuova dimensione europea, l’ambito di riferimento, il sistema, è la regione Mezzogiorno, il sottosistema è la Regione Campania, perché dotata di precise competenze istituzionali, nel suo ambito che vanno individuate le aree, le politiche e gli strumenti di intervento e definite le linee di sviluppo, rispettose delle vocazioni e delle peculiarità dei singoli ambiti di riferimento, mirando le politiche in rapporto ai vari ambiti locali.
Il primo obiettivo da perseguire è una effettiva mobilità, in tempi brevi e certi e a costi contenuti delle persone e delle cose.
Il sistema Mezzogiorno, il sottosistema Campania e il sub-sistema area metropolitana, non dispongono di una efficiente rete di infrastrutture per la mobilità delle persone, delle cose e delle informazioni.
Il sistema di trasporto delle cose è ancora, prevalentemente, realizzato su gomma, quello delle informazioni attraverso reti obsolete, con scarsa diffusione di centrali a commutazione numerica, cablaggi in fibra ottica, servizi ad alto valore aggiunto.

I distretti industriali devono assumere sempre più il ruolo di oggetto/soggetto delle politiche, attraverso azioni che portino, così come previsto dalla nuova legislazione, alla costituzione di consorzi di promozione e sviluppo che vedano la compartecipazione delle imprese e delle istituzioni; a tal fine la Regione deve dotarsi di un sua finanziaria, braccio operativo della politica promozionale che dovrebbe attivare.
Il sindacato deve farsi agente di una battaglia che rivendichi innanzitutto un interlocutore, i consorzi, col quale contrattare le politiche di sviluppo. La contrattazione sul territorio non è la semplice sommatoria dell’insieme delle singole contrattazioni con le singole imprese, richiede forme, contenuti e strumenti nuovi.
La contrattazione dello sviluppo deve costruire le condizioni necessarie al superamento della forbice che si apre tra la riduzione della disponibilità di risorse e la necessità di investire in servizi per reggere il mercato, è questo l’oggetto fondamentale della contrattazione che il sistema delle imprese e il sindacato devono attivare con la Regione.
La Regione, coordinandosi con le altre realtà meridionali, deve contrattare con il Governo la realizzazione di una interfaccia tra il sistema della ricerca universitaria e il sistema delle imprese.
Società a capitale misto pubblico - privato devono offrire servizi in grado di sollecitare la domanda di intervento sul controllo della produzione, la formazione delle risorse umane, la gestione della presenza sul mercato.
Queste piccole, semplici cose possono contribuire, concretamente, a risolvere la nostra questione, il riscatto autonomo del Sud.

[Relazione al Seminario della Fiom Napoli e di ON Osservatorio Napoli su: Il Mezzogiorno dalle politiche industriali ai sistemi locali, Borsa Merci, Napoli 28 giugno 1994]

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